"Che io sia Re, mi pare sia cosa da non dubitare. V'è in me un modo regale di pensare, di opinare, di fantasticare, che non finisce di stupirmi e di allietarmi. Non riesco a pensare a cose umili e povere; ogni cosa deve avere un nome, collocarsi in una gerarchia, incedere o strisciare, ma in modo emblematico. Penso alle aquile; specie al primo dilucolo, nel silenzio tra notte e giorno, nel freddo che anneghittisce, in mezzo al distratto sgomento dei fiori, penso ad enormi aquile, ali metalliche e sapiente malvagità i occhi...". Co questo perentorio attacco il nuovo libro di Manganelli s'apre e prende slancio per un crescendo di variazioni sul tema d'una lucida esaltazione megalomane. Un bestiario araldico, cifrario d'una cupa euforia, è evocato dalla solitudine dell'insonne che si rigira tra le lenzuola come una pagina bianca. Il teatro di cui Manganelli ancora una volta apre il sipario per il suo spettacolo verbale è lo spazio della mente: lo popolano fantasmi che convergono tutti sull'allegoria sovrana, la morte, il più carnevalesco e il più suntuoso oggetto della nostra scenografia interiore. Ma al posto della violenza 'discenditiva' e autodistruttiva dell''Hilarotragoedia', al posto dell'architetura che eleva propilei e trabeazioni su una gelida capocchia di spillo nel "Nuovo commento", qui c'è la tensione energetica del raptus, il librare le ali nei cieli graniosi della simulazione, il volo radente verso i vortici dell'assenza. Un'ossessione moltiplicatoria e deduttiva affolla le prospettive labirinti che di proliferazioni mitologiche, di moltitudini di dei o di defunti: dei a grappoli, dei a gomitolo, pasta per fare dei; oppure la popolazione sterminata dei morti, brulicanti nelle filettature d'una madrevite arrugginita, loro ricettacolo segreto, microscopico averno, o addiritura sfarinati e cotti in una focacia d'oltretomba.