Nell'agosto del 1914, più di centomila trentini e giuliani vanno a combattere per l'Impero austroungarico, di cui sono ancora sudditi. Muovono verso il fronte russo quando ancora ci si illude che "prima che le foglie cadano" il conflitto sarà finito. Invece non finisce. E quando come un'epidemia si propaga in tutta Europa, il fronte orientale scivola nell'oblio, schiacciato dall'epopea di Verdun e del Piave. Ma soprattutto sembra essere cassato, censurato dal presente e dal centenario della guerra mondiale, come se a quel fronte e a quei soldati fosse negato lo spessore monumentale della memoria. Paolo Rumiz comincia da lì, da quella rimozione e da un nonno in montura austroungarica. E da lì continua in forma di viaggio verso la Galizia, la terra di Bruno Schulz e Joseph Roth, mitica frontiera dell'Impero austroungarico, oggi compresa fra Polonia e Ucraina. Alla celebrazione Rumiz contrappone l'evocazione di quelle figure ancestrali, in un'omerica discesa nell'Ade, con un rito che consuma libagioni e accende di piccole luci prati e foreste, e attende risposta e respira pietà - la compassione che lega finalmente in una sola voce il silenzio di Redipuglia ai bisbigli dei cimiteri galiziani coperti di mirtilli. L'Europa è lì, sembra suggerire l'autore, in quella riconciliazione con i morti che sono i veri vivi, gli unici depositari di senso di un'unione che già allora poteva nascere e oggi forse non è ancora cominciata.
La nostra recensione
Ci sono diversi modi per raccontare la guerra. Quello scelto da Paolo Rumiz, com’è nel suo stile, è sicuramente il meno consueto. Rumiz sceglie infatti di mettersi dall’altra parte, dalla parte cioè di quegli italiani che parteciparono alla Grande Guerra con la “divisa sbagliata”, quella dell’esercito austro-ungarico, il nemico dell’irredentismo italiano che voleva riportare sotto il Tricolore le terre istriane, giuliane e trentine. Il suo racconto di viaggio diventa così un’immersione nella memoria e nei luoghi di quel massacro che sconvolse l’Europa e le cui tragiche conseguenze stiamo pagando ancora oggi. Rumiz parte inseguendo l’ombra del nonno Ferruccio, che di quell’esercito senza nome e senza patria - nemico sia per gli italiani che per gli imperiali - faceva parte, e lo segue nelle sterminate distese della Galizia e poi in Ucraina e in Bosnia, dove tutto ebbe inizio. Lo fa sostando nei cimiteri di guerra, minuscoli e, spesso, anonimi, disseminati in quelle terre del fronte orientale (il “fronte dimenticato”) che l’autore attraversa in treno, seguendo il ritmo lento delle tradotte militari, assaporando i profumi e i sapori del posto, perché è anche e soprattutto nel ritmo quotidiano della vita che si riesce a ritrovare il passato. A questi eroi senza cimiteri, senza lapidi, cerimonie, musei e monumenti Rumiz dedica un racconto intenso, partecipe, empatico, dando forma e sostanza a paesaggi, vicende ed episodi dimenticati. E lo fa attingendo a cartoline, messaggi, fotografie, diari e lettere, ma soprattutto osservando con gli occhi increduli della memoria. Ogni libro di Rumiz - e questo forse ancora più di altri - è una sorpresa, un concerto polifonico, un affresco espressivo, un viaggio emotivo tra i luoghi, i racconti orali, le tradizioni e i costumi degli uomini che vi abitano e che vi hanno vissuto. Antonio Strepparola