Fra le molte ragioni della fama di Billy Wilder, una era l'assenza di cautele diplomatiche, qualità decisamente rara in un ambiente votato, come Hollywood, alla consacrazione delle apparenze. La conferma arriva da questa lunga intervista con il collega Cameron Crowe, nel corso della quale Wilder apre i suoi archivi: fotografie in gran parte inedite, giudizi letali, persino consigli a chi è nuovo nel mestiere. Nel corso del racconto parecchi idoli vengono infranti, alcuni sipari strappati, ma l'inspiegabile malìa del cinema ne esce intatta.
Crowe non è certo Truffaut... e Wilder non è Hitchcock (per il cui modo di far cinema Wilder sembra tra l'altro nutrire un certo biasimo).
Le interviste, pur se parzialmente confusionarie e un po' ripetitive, sono scorrevoli e delineano, tra reticenze e confessioni, il carattere e le opinioni di un regista "topico" del cinema americano (fatto un po paradossale, date le sue origini austriache).
Wilder parla senza peli sulla lingua, pur non affondando mai fino in fondo il coltello.
Nelle interviste scorrono, tra ricordi più o meno allegri, simpatici bozzetti di alcuni attori: in essi viene raccontata ad esempio lavarizia di Cary Grant (con il quale Wilder ha sempre tentato invano di girare molti suoi film) o linsicurezza della straordinaria Monroe (divertente la storia dei suoi 80 ciak) se paragonata alla fredda professionalità della Dietrich; o ancora lestrema versatilità di Laughton, lesuberanza di Lemmon (messa a freno da Cukor fino alla non recitazione) ed il riconosciuto fascino della Hepburn.
Traspare ancora tutto il rancore per un cineasta come Leisen (a causa del quale si sentì quasi obbligato a passare dal ruolo di sceneggiatore a quello di regista), il rispetto e la stima per colleghi come Wyler e Stevens e infine la venerazione per il geniale maestro Lubitsch (morto, come ricorda goliardicamente, tra le braccia di una prostituta).
Efficace appare inoltre il solido pragmatismo con il quale Wilder maturava la stesura delle sceneggiatire, nella fruttuosa collaborazione con i suoi due co-sceneggiatori Brackett e Diamone; o la meticolosità dei criteri con cui definiva i tempi delle battute per le sue commedie più brillanti.
I ricordi più dolorosi sono ovviamente quelli della madre finita nel campo di Auschwitz e probabilmente linsuccesso di alcuni suoi film, sui quali pare quasi detestasse discorrere.
Cè parecchio di vero Wilder in queste interviste, di sicuro un po incupite (ma forse anche mitigate nei suoi toni tipicamente caustici) dal peso delletà (sono morti tutti).
Buona la grafica del testo, belle le foto.
In conclusione di sicuro un libro che non può mancare nella biblioteca degli estimatori del regista.
Vittorio Moccia - 21/05/2013 14:24