Domenica, una telefonata nella notte. Quaranta chilometri verso l'ospedale più vicino: "Ci sono tutti. Il grande vecchio disteso a letto, i miei fratelli dritti in piedi". Tra presente e memoria, tra storia e attualità, tra dialetto e Skype, è l'avvicendarsi delle generazioni: il padre, i figli, le nipotine, disperse tra Los Angeles, Manchester e Verona. E il passaggio da una società contadina e povera, un paese che ha sofferto due guerre mondiali, a una società apparentemente sazia ma ingiusta. E inquieta. Da una cultura cristiana e cattolica, intrisa dei valori religiosi, a una società dove il tuo vicino d'ospedate è un islamico, e infermieri e badanti: arrivano dall'Est Europa - o magari dall'Africa o dall'Estremo Oriente. Raccontando la quotidianità e i sentimenti famigliari con lo sguardo e le parole del grande scrittore, Ferdinando Camon ci aiuta a capire il nostro paesaggio umano e psichico, e ci obbliga a chiederci dove stiamo andando.
Si arriva a un momento della vita in cui, ricollegandosi idealmente al passato, si cerca di dare una soluzione all'eterno problema di ogni essere umano, cioè si aspira a che ci sia una continuità, a che resti una traccia di noi per il tempo in cui non ci saremo più. Camon, nella dolorosa circostanza della grave malattia che colpisce il padre, cerca questo filo ideale che si perpetua nei secoli, così che ognuno di noi esiste perché qualcun altro è venuto prima e di lui portiamo segni inequivocabili, una parte del dna che accomuna i bisnonni ai nonni, ai figli dei nonni, cioè i nostri genitori, noi e i nostri discendenti, un segno indelebile, incancellabile che insieme costituisce traccia e presenza anche quando la nostra vita sarà cessata. Il suo è un racconto in prima persona, in cui la figura paterna assume una dimensione quasi mistica e se in Un altare per la madre proprio il padre aveva elevato, con commosso omaggio, un'ara a perenne e perpetuo ricordo dell'amata scomparsa, in questo libro lo scrittore padovano diventa l'officiante di una liturgia commemorativa della figura del genitore, più presente nelle prime pagine, assente nominalmente nelle ultime, anche se sempre aleggia la sua personalità, perché la vita è così, perché di chi ci lascia portiamo in noi, oltre che la memoria, alcuni tratti distintivi, così che di ognuno possiamo dire che è parte di una determinata stirpe. La mia stirpe è il racconto appassionato di un credente che aspira a un'immortalità terrena grazie alla stirpe di cui è parte; è forse un sogno a occhi aperti, ma credetemi se vi dico che è un bellissimo sogno.
Renzo Montagnoli - 24/06/2014 08:42