Lo stereotipo che più frequentemente viene associato alla figura di Jacques Lacan è quello di un autore ambiguo e impenetrabile. La scommessa di Mikkel Borch-Jacobsen è che si può invece leggere Lacan, ma che per fare questo occorre infrangere le tradizionali cornici storiografiche che lo vedono schierato al fianco di Jakobson e di Lévi-Strauss, di Althusser e di Foucault, nei panni di un donchisciotte ormai démodé dello strutturalismo. A un più scrupoloso esame storico, Lacan rivela un profilo assai diverso, più curioso e intrigante. Compagno di strada di Bataille e di Queneau, di Sartre e di Blanchot, Lacan fu anzitutto un figlio del suo tempo, e cioè un figlio di Alexandre Kojève, che con i suoi celebri corsi sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel (1933-39) diede avvio a una delle stagioni più controverse e appassionanti della filosofia francese del nostro secolo - l'esistenzialismo. E dietro Kojève, padre di tutti i ritornelli lacaniani (quale ad esempio "il desiderio dell'uomo è il desiderio dell'Altro"), vediamo allungarsi subito l'ombra di Heidegger, con i suoi interrogativi sulla verità e il linguaggio, il soggetto e l'essere, che diverranno poi i perni della riflessione di Lacan. Non privo di ironia nei confronti di uno stile volutamente ermetico e stregonesco, con un occhio sempre rivolto a Freud, a volte rispettato, a volte forzato da Lacan, Broch-Jacobsen cerca così di rendere finalmente comprensibile un'opera presentata spesso in modo approssimativo, senza cadere né nella polemica gratuita né nell'osanna di maniera. E il risultato è uno degli strumenti più affidabili per chiunque voglia cogliere, oggi, il senso della sfida di questo clown del pensiero contemporaneo.