Necessità dell'artificio è un libro provocatorio e seducente. Esposta con raro talento stilistico e permeata da un'erudizione prodigiosa, la tesi di fondo emerge netta e chiara: per contrapporsi alle gabbie geometriche dello pseudo-razionalismo, architetti e designer devono andare a scuola da pittori e scultori, imparare a lavorare con loro, concepire le loro opere come espressione del gusto, del piacere, dell'artificio formale. Ma un simile sviluppo sarà valido solo se verrà considerato necessario, non gratuito; se lo si penserà non nei termini di una semplice scelta fra ornare e non ornare, ma di un discorso culturale teso alla creazione di un ambiente umano ricco e stimolante. In quest'ottica, la "necessità dell'artificio" si contrappone al ruolo di "ingegneria sociale" in cui la società tecnologica tende a relegare architetti e urbanisti. Infatti la loro funzione è "dare forma fisica a un'istituzione sociale, provvedere agli schermi che il passante all'esterno e l'utente-partecipe all'interno riconoscano come linee di demarcazione di una data situazione sociale, sia essa una capanna o il municipio di una megalopoli. Oggetto del loro lavoro è in primo luogo ciò che può venire manipolato: la materia bruta sulla quale essi operano e le sue superfici, le cui scansioni trasformeranno il materiale inerte in un portatore di intenzioni... Non può esistere progetto senza intenzione; e poiché l'intenzione è una funzione volontaria, non può esserci progetto senza artificio. L'atto progettuale implica sempre lo sviluppo consapevole o semi-consapevole di una forma o di più forme; né questo avviene senza l'imposizione dell'artificio".