E' noto che il Pindemonte (1753-1828), pur ritenendo che "l'Odissea non abbia quelle bellezze sì gagliarde, e sì luminose, che incontransi nell'Iliade", decise di tradurla perché la sentiva più intonata al proprio animo di quanto non fosse il poema di Troia. E alla luce di tutta la sua produzione, improntata a una 'medietas' tonale e a una melanconica levità di affetti, la scelta dell'epopea solitaria e poi domestica fu senz'altro, come scrisse il Foscolo, 'buon consiglio', perché lo spettacolare conflitto degli Achei e dei Troiani "avrebbe richiesto più fantasia ed energia che non siano caratteristiche del suo stile". Impostasi presto nella scuola e nella memoria collettiva accanto all'"Iliade" di Vincenzo Monti, l'"Odissea" pindemontiana appare oggi come un'opera da riscoprire: un'opera che attraverso in suo levigato classicismo e il suo gusto quasi più settecentesco che ottocentesco sa offrire al lettore un'insospettata ricchezza di soluzioni formali e di intonazioni poetiche. Su questa ricchezza, oltre che sulla genesi psicologica dell'impresa e sulle idee del Pindemonte in materia di traduzione, si sofferma in particolare l'"Introduzione" di Michele Mari. Esemplato sull'edizione del 1822, l'unica curata personalmente dall'autore, il testo dell'"Odissea" è qui annotato e corredato da un ampio apparato critico-filologico e da un repertorio ragionato dei nomi.