Matti matti, mezzi matti e mattacchioni. Eccentrici, stravaganti e saggi alla rovescia. C'è chi urla, chi inveisce, chi canta, chi si traveste, chi chiede udienza, chi si limita ad aspettare Godot. Li vediamo vagare per le strade delle nostre città, alla fermata del tram, in piazza, al bar, sul sagrato della chiesa. Attraversano le nostre vite mentre tiriamo dritto per andare al lavoro. Spiazzano improvvisamente le nostre passeggiate domenicali gettando urla lancinanti. Uno, in tenuta da manager, cammina fingendo di parlare al telefono e ogni tanto grida ordini a qualche fantomatico sottoposto. Uno va a tutti i funerali, anche a quelli delle persone che non conosce, vestito di nero e con un mazzo di fiori in mano. Una esce di casa in sottoveste e veletta, portando sempre con sé una rivoltella. Uno indossa una tiara di cartone e recita omelie dal finestrino dell'autobus. Uno sostiene di essere il "progetto pilota" di una civiltà extraterrestre. Uno indossa solo una striscia di stoffa bianca, ha il volto scavato, i capelli lunghi e grigi: percorre silenzioso le vie del centro diretto al mare, anche in pieno inverno, seguito da un corteo di cani. E un nuovo Cristo?
La nostra recensione
Stamattina sono andata al solito bar a fare colazione e ho chiesto un caffè americano con un biscotto di pastafrolla. A me però le mandorle non piacciono, quindi ho iniziato, con fare da entomologa, a togliere ogni singola mandorla dal biscotto per poi depositarla delicatamente sul piattino del caffè. Intanto pensavo distrattamente: oggi devo scrivere la recensione di "Repertorio dei pazzi d'Italia". In quel momento ho intercettato lo sguardo attonito del barista che osservava le mie procedure per epurare il biscotto dall'ultima, riottosa mandorla. E sono scoppiata a ridere da sola. Repertorio dei pazzi, eh? Da che pulpito. In questo libro, dieci autori dipingono per noi i cosiddetti pazzi delle loro città, come in un quadro di Hieronymus Bosch. C'è uno che colleziona sacchetti per il vomito delle compagnie aeree, uno che dirige il traffico di piccioni in piazza, uno che va ai funerali degli sconosciuti forse per ottenere un illecito scambio di abbracci, una che aspetta ore e ore il veterinario per poi chiedergli soltanto: "Dottore, ma in inverno i grilli muoiono?" E poi c'è uno che conta le piastrelle della cucina. Ma, dico, chi di noi non l'ha mai fatto? "Il Repertorio dei pazzi d'Italia" - e questo è il suo bello - annovera pazzi di ogni genere. Oltre ai pazzi classici (e non so se mettere tra virgolette pazzi o classici), incontriamo anche pazzi d'amore, pazzi per un ideale, pazzi per la moda, pazzi per i gatti, pazzi come siamo un po' tutti noi che camminiamo in equilibrio precario e ondivago tra la salute mentale e la follia. Tant'è che per esempio, come ci racconta Roberto Alajmo, uno degli autori nonché curatore del libro, a Trieste in dialetto per dire uomo si dice matto. "Il Repertorio dei pazzi d'Italia" è un libro che non andrebbe letto tutto d'un fiato. Bisognerebbe soffermarsi su ogni storia, fare amicizia con ogni pazzo del repertorio, provando magari, attraverso la sua follia manifesta, a capire la nostra: più nascosta, più gestita, più piccola forse, ma non per questo meno folle. Non dimenticando tra l'altro che, se a togliere le mandorle come fossero insetti da laboratorio è una signora, benvestita (credo) e benvista nel quartiere (spero), va tutto bene. Ma se la stessa azione la compie una persona dall'apparenza meno regolare, scatta il pregiudizio. Sul rogo ci sono finiti - e metaforicamente ci finiscono ancora - tanti matti che matti non sono. Il dolore, se non si è abbastanza forti per sopportarlo, fa impazzire. Ma anche: il dolore, se si è così forti da accettarlo e manifestarlo, ci fa apparire pazzi. Per questo, come scrive Silvia Ballestra: "Per parlar di matti ci vuole rispetto". Rossella Calabrò)