A fronte dell’avanzata della fantascienza detta “sociologica”, questo volume della poderosa antologia curata da Isaac Asimov, dedicato al 1957, rappresenta quasi una reazione. Prevalgono i racconti di ambientazione spaziale e di ispirazione “scientifica”. L’eccezione vistosa è costituita da L’ultimo uomo rimasto al bar di C. M. Kornbluth. Gioca più sul linguaggio che sulla trama e, secondo Asimov, anticipa una diversa stagione della science fiction che sta per aprirsi: quella della New Wave. Probabilmente è vero. Restando al filone avventuroso - scientifico qui predominante, dai testi migliori – come Chiamatemi Joe, di Poul Anderson, o Onnilinguista, di H. Beam Piper – è facile desumere una costante del genere letterario di cui trattiamo. Nella science fiction la scienza non è il tema centrale. Il Giove di Anderson o il Marte di Beam Piper hanno poco a che vedere con le acquisizioni astronomiche, non dico del nostro tempo, ma anche del loro. Sono scenari in gran parte di comodo, e la “scienza” che aiuta a esplorarli è non solo fittizia, ma anche palesemente impossibile. Diciamo che, in questo tipo di letteratura, scienza e tecnologia alimentano sogni e fantasie, che diventano puro racconto. Peraltro sorretto da una logica congruente, che differenzia la narrazione dal semplice onirismo. Si parla, insomma, di fantasticherie suggerite da sviluppi materiali e raccontate con piglio materialistico. è questa la novità che la science fiction introduce nella narrativa. Favoleggia, però senza rinunciare a una adesione che definirei “laica” al reale, fatto semplicemente esplodere per immaginare il destino dei suoi frammenti.