E' ancora pensabile la politica dopo Auschwitz? Ma che cos'è la politica? E' possibile definirla? A partire da quale luogo? Questo insieme incalzante di domande attraversa l'intera opera della Arendt e ne scandisce, nervosamente, il ritmo, costituendone, al tempo stesso, il filo conduttore. Interrogare quest'opera significa, innanzitutto, esser costretti a guardare in faccia, con realismo, la politica del secolo appena trascorso, al quale ancora apparteniamo, con le sue "zone" di "malvagia banalità". E' Auschwitz la linea di confine, la "zona grigia" da cui ripensare la politica, anche e soprattutto nell'epoca della cosiddetta "globalizzazione". Ricercando i segni premonitori della catastrofe novecentesca, la Arendt li trovò nella tragica vicenda dei migranti, dei rifugiati, degli Heimatlose, le cui vite si infransero, allora, sugli scogli di una sovranità carnivora e cannibalesca che si apprestava ad allestire, sui loro corpi, una nuova forma di politica, la biopolitica. La "globale Zeit" del primo novecento si chiude in tragedia. Sarà possibile, nell'odierna "globalizzazione", liberare la politica dall'angoscia che sempre si accompagna all'ossessione metafisica della sovranità?