Vera è una diciasettenne vitale, istintiva e un po' atipica: una "veteromane", come lei stessa si definisce, con gusti letterari e musicali diversi da quelli dei coetanei, con aspirazioni vaghe e indisciplinate. Ha un padre lontano, a cui scrive lettere destinate a restare senza risposta, e una madre vicina ma assente, sempre impegnata in nuovi e improbabili progetti. Frequenta con dignitoso profitto il liceo classico, ma la scuola le sembra impantanata in una mentalità, un umorismo, un linguaggio inservile, lontani dalla vita. L'amore per un ragazzo conosciuto per strada le regala emozioni potenti, un modo diverso di stare al mondo, e in ultimo, con il distacco, un dolore nuovo. Ma l'incontro destinato a scandirle l'universo in un colpo solo deve ancora arrivare: a formare Vera in un modo sotterraneo e definitivo sarà un vecchio linguista dolcissimo ed eccentrico, Otto November, il quale, col suo sguardo bambino, capace di penetrare "in forma stupefatta, nascente, l'atto di parlare", le svelerà quanta forza e vitalità custodisca ogni lingua: le parole sono tracce di sensazioni antiche, dicono l'andata e il ritorno del loro rapporto con le cose, l'emozione dell'incontro e dello scontro, sono lo specchio di un popolo, "del suo mutar di pelle o della sua immutabilità", "cambiano insieme alla vita e vanno a significare la tua tragedia e la tua commedia", dirà Otto nel corso di alcune lezioni tutt'altro che accademiche, lezioni calde, bellissime, in un linguaggio finalmente vicino alla vita. Così vicino alla vita che finisce anche per modificarla: e infatti quelle piccole lezioni di glottologia riescono a modellare l'inquietudine di Vera, a dare un suono al suo mondo. Sdraiata su un prato a guardare le stelle, potrà forse desiderare in modo nuovo: perché desiderio (de-sidera) - fantasticava Otto - "è guardare le stelle e chiedere che da loro scenda qualcosa".