L'antica dimora degli Amore si distende sulle colline di Posillipo che, già ombreggiate di giardini e orti, negli anni '50 e '60 del nostro secolo sono state divorate dal cemento della speculazione. Anche la villa degli Amore ha vissuto le vicende di decadenza che sembrano tipiche di molte grandi famiglie incapaci di adattare al mutare dei tempi le loro fortune. L'orgogliosa residenza, con la rotonda aperta sui grandi spazi del golfo, con i suoi sempreverdi e le stalle per i cavalli, ha subito ogni sorta di ristrutturazione e adattamento: è diventata una sorta di alveare tropicale e barocco, degradata e tuttavia ancora accogliente e protettiva. I padroni di un tempo, come il carnale e gaudente don Giulio, non hanno più niente da vendere, e convivono con i loro fedeli servitori, sorreggendosi a vicenda, cercando di salvare un minimo di patetico decoro. E' questo il luogo eminentemente teatrale in cui Fabrizia Ramondino intreccia una serie di destini incrociati che si consumano tra fervore e disincanto, tra la passione di un futuro da inventare e lo smarrimento per una perduta misura del vivere. Siamo nel settembre 1969. Nelle poche ore di un fine settimana decine di personaggi (studenti, operaie, negozianti, suore, professionisti, portinaie, ragazzi di vita, rivoluzionari veri e presunti, bambini e animali) riversano negli spazi della villa storie personali e familiari, avventure individuali e di gruppo, discussioni ideologiche e amori precari, assenze ed attese, velleità e debolezze. I più giovani, come Erminia e Costanza, tentano di conciliare la miltianza politica con la fragilità della loro vita privata; o, come Irene, hanno cercato di fare qualcosa, concretamente, per la loro città. Al centro del gruppo sta infatti, come almanacca don Giulio senza troppo capire, "una nuova genia di donne che parevano uscite da una nuova arca di Noè, con un lungo corteo di diritti e rivendicazioni". Se in queste pagine rivivono i sussulti del '69, senza indugi nostalgici [...]