“Fino al XII secolo al centro della meditazione del cristiano era stato il giudizio universale, oltre i quale si sarebbero schiuse la gioia o, più probabilmente, la dannazione eterne. Con il definitivo imporsi però, a partire dall’inizio del XIII secolo, della fede nel purgatorio e dunque con lo sbiadire dell’ossessione di finire all’inferno, la morte non fu più percepita come varco verso un temibile aldilà ma piuttosto come conclusione dell’esperienza terrena. In quanto espressione impersonale di una legge che domina ogni essere vivente,la Morte, non i morti che risorgono dalle tombe o che si avviano in lunga fila ad ascoltare il verdetto di Cristo giudice, divenne una figura simbolica, rappresentata dallo scheletro che evoca la sorte di tutti. Inoltre, con l’affermarsi di una società che aveva creato istituzioni, fortune, gioie e che non avvertiva più come incombente il misurarsi con la quasi certezza della dannazione, la morte non fu più percepita come il crinale fra tempo umano e tempo eterno, ma come espressione “di un sostanziale distacco dalla consolazione dell’universale resurrezione della carne”. La chiesa, per tutta risposta, non rinunciò alla pedagogia del terrore, sia ripetutamente affermando che le pene del purgatorio, pur se transitorie, erano atroci esattamente come quelle infernali, sia non astenendosi dal prospettare come sempre attuale l’alternativa inferno –paradiso. In aggiunta accolse nel repertorio sacro il macabro, le immagini del disfacimento, come potente mezzo di freno a un troppo appassionante gusto del vivere e per richiamare i credenti a una più rigorosa moralità. Il macabro divenne quindi volano per riportare in primo piano il pensiero dell’aldilà…”