"Non continua chi vuole la tradizione, ma chi può, talora chi meno lo sa": la famosa sentenza montaliana si candida a epigrafare anche la nuova serie dei saggi di Mengaldo dedicati al nostro Novecento. Un ambito in cui Mengaldo procede, come sempre, per campionature somme, o marginali e sorprendenti; e mentre il controluce di una lettura raffinatissima ci rivela da ultimo ciò che, spesso senza vederlo nella sua interezza, avevamo dinanzi, cambia per noi la nozione stessa di tradizione. Già Montale ne aveva scosso il motore temporale, giudicandola paradossalmente retroattiva. Mengaldo compie l'opera. Contro i legittimisti del canone letterario e gli idolatri della rottura moderna (con la variante postmoderna del canone ridotto a mercanzia citabile), flette la tradizione sino a comprendervi le ragioni delle inappartenenze, e a creare "ponti" imprevisti: su diversi versanti infatti, sia i dialettali sia Fortini poetano "in una lingua morta"; l'adiacenza dei registri linguistici ha esiti opposti nei crepuscolari e in Elsa Morante; Montale, infine, assieme a Sereni, signoreggia, e insinua un "retrogusto" pure in non- montaliani professi come Caproni e Giudici.