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Pier Paolo Pasolini a 40 anni dalla morte

di Redazione Mondadori Store
2 novembre 2015

Sono passati 40 anni dalla scomparsa di Pier Paolo Pasolini, avvenuta il 2 novembre 1975. In queste settimane si è parlato tanto delle opere del grande intellettuale, scrittore, poeta e regista che è riuscito nei suoi libri a prevedere il destino del nostro Paese. Leggerlo non è facile, non lo è mai stato, ma le sue pagine meritano di essere (ri)scoperte. Lo facciamo attraverso il ricordo che ne traccia un libraio di Mondadori Store, rievocando le parole pronunciate durante il suo funerale da Alberto Moravia.


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Cerco su YouTube le riprese dei funerali di Pasolini. Trovo il bianco e nero sgranato di una piazza romana gremita di persone. Le osservo: barbe, riccioli e basette, occhiali dalle montature pesanti come le corone di ori che accompagnano la bara mentre si fa largo tra i flash dei fotografi , i pugni chiusi, le facce attonite o semplicemente incuriosite. Sul palco sta parlando un uomo con il cappotto nero e il cranio glabro. “Abbiamo perduto il nostro simile…” dice. È Alberto Moravia, e tocca a lui pronunciare l’orazione per la morte di Pasolini, il 5 novembre del 1975, quarant’anni fa.

"Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro.” E invece pochi giorni prima, nella notte tra l’1 e il 2 novembre, il poeta Pasolini è stato sacrificato. Si è avviato volontariamente verso l’Idroscalo di Ostia per incontrare la mano che l’ha ucciso. O le mani. Che a massacrarlo di botte, infatti, sia stato un diciassettenne magrolino, solo e disarmato, restìo a consumare un rapporto omosessuale, è una traballante versione ufficiale che ha coperto da subito una vasta rete di complicità. Così vasta da soffocare, ancora oggi, la verità su quanto accadde.
A Ostia veniva sacrificato il poeta che aveva esordito ai margini della tradizione letteraria con versi in dialetto friulano attraverso cui riallacciarsi al paradiso perduto del paese materno, Casarsa, ed era passato alla lingua italiana raccontando le suggestioni del “mito cristiano” ne L’Usignolo della chiesa cattolica e ripercorrendo, addirittura in terzine dantesche, la propria scoperta di Marx nel successivo Le ceneri di Gramsci. E poi ancora il pellegrino di La religione del mio tempo, sospeso tra lo stupore davanti agli affreschi di Piero della Francesca, l’inquieto aggirarsi tra tuguri e grattacieli della periferia romana e la rievocazione dei “luoghi, persi nel cuore / campestre dell’Italia, dove ha peso / ancora il male, e peso il bene”; la voce sperimentalista di Poesia in forma di rosa, “accumulo disorganizzato”, come la presenta lo stesso autore “di Temi, Treni e Profezie, di Diari e Interviste e Reportages e Progetti in versi”, accomunati dalla disillusa constatazione di una totale insignificanza della poesia nel mondo moderno, travolto dalla “sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica”, dove il poeta è ridotto a “mostro”, “animale senza nome”, “bestia da stile”.
Ma Moravia continua. “Poi abbiamo perduto anche un romanziere. Il romanziere delle borgate, il romanziere dei Ragazzi di vita, della Vita violenta.” Due titoli entrati nei formulari a ripetizione dei giornali per i due “scandalosi” romanzi in cui si rivelava l’umanità degradata e vitale, innocente e violenta del sottoproletariato romano.
La folla rumoreggia, e Moravia la sovrasta. “Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono no? Ha fatto una serie di film alcuni dei quali sono così ispirati a quel suo realismo che io chiamo romanico, cioè un realismo arcaico, un realismo gentile e al tempo stesso misterioso. Altri ispirati ai miti, il mito di Edipo per esempio. Poi ancora al grande suo mito, il mito del sottoproletariato, il quale era portatore di una umiltà che potrebbe riportare a una palingenesi del mondo.” Dietro la macchina da presa di Pasolini sono sfilati i borgatari di Accattone e Mamma Roma, le maschere tragiche di Medea ed Edipo, gli eroi vitali e sfrenati del Decameron, dei Racconti di Canterbury e del Fiore delle Mille e una notte, i lugubri libertini di Salò o le centoventi giornate di Sodoma.
“Infine, abbiamo perduto un saggista. Vorrei dire due parole particolari su questo saggista. Ora il saggista era anche quello una nuova attività e a cosa corrispondeva questa nuova attività? Corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene a un altro aspetto di Pasolini. Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Un’attenzione diciamolo pure patriottica che pochi hanno avuto.” Critico inattuale, polemista scomodo (come quando, dopo gli scontri alla facoltà di Architettura occupata dagli studenti, si schierò dalla parte dei poliziotti), pensatore eretico, come nelle celebri Lettere luterane, e “corsaro” inorridito dalla “nuova preistoria” del neocapitalismo.
Il tutto in pagine che si sono scolpite nella memoria, dall’articolo sulla scomparsa delle lucciole, emblema della rottura accaduta nella società italiana negli anni Sessanta, fino al tremendo, lapidario Io so:
“Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.”
Il file sta finendo, mancano un pugno di secondi. Moravia si avvia alla conclusione. “Tutto questo l’Italia l’ha perduto” mormora. “Ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo paese.”

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