Riusciremo mai a prestar fede a Lautréamont? Non sarà forse l'intera sua opera la grandiosa beffa di un giovane di genio, come tuttora molti ipotizzano? Sta di fatto che da ben più di un secolo, ormai, egli mena per il naso lettori e critici; sui suoi testi sconcertanti si sono versati fiumi d'inchiostro, e ancora se ne verseranno. Ma arrivato in fondo al volume, anche il più sprovveduto dei dilettanti comprende il perché di tanta passione, di tanto caparbio ostinarsi: come maggiormente si ama ciò che ci si nega, e forse si ama proprio in ragione di tal negarsi, così la pagina strabocchevole, rutilante, iperbolica di Lautréamont, ricca d'invenzioni verbali, di cervellotiche elucubrazioni, di acrobazie da funambolo di razza, possiede un enorme potere di attrattiva, un fascino spesso ipnotico a cui è assai difficile sottrarsi. Ed è l'impossibilità di penetrare fino in fondo tutto questo materiale letterario - e metaletterario - a tenerci avvinti, "innamorati" di un'opera che non finisce mai di stupirci, irritarci, meravigliarci: con le sue punte di altissima poesia, la sua visione "nera", del mondo e del consorzio umano, che discende da una coscienza drammaticamente lacerata, da un malessere esistenziale, esso sì, davvero, autentico. Se tale è stato - come è stato - lo scopo primario dell'autore, egli si dica dunque soddisfatto appieno: l'universo sconvolto dei "Canti di Maldoror" continua a trascinare nel vortice delle sue spirali colui che a buon diritto Lautréamont può baudelairianamente chiamare 'semblabe', 'frère'. Edizione con testo a fronte.