In queste pagine Sergio Zavoli ripercorre con spirito né indulgente né inquisitorio tanta parte del secolo appena trascorso, e lo fa consultando gli appunti di un simbolico 'diario' riempito in cinquant'anni di radio e televisione. Senza mai trasgredire un valore spesso presente nel suo lavoro, quello di scrivere libri di 'memoria viva', proiettata cioè nel 'dopo', dove nel rievocare un evento del passato si sente l'urgenza di rispondere alla domanda: "Ma poi, che ne è stato? ". Si tratta, quindi, di una specie di 'narrativa della memoria' - per usare un'espressione di Alberto Arbasino - fra cronaca, costume e storia: tre scenari, tre linguaggi, tre spaccati di umanità, attraverso stagioni tremende e straordinarie, per sottrarre all'oblio ciò che un uomo, o un Paese, se non vuole smarrire la propria identità, non può dimenticare. "Diario di un cronista" è un'opera destinata a chi c'era e a chi vide, ma anche e forse soprattutto ai giovani d'oggi, per la quantità di conoscenze e testimonianze fornite, per i continui e illuminati rimandi fra vecchio e nuovo, edito e inedito, ovvero per la maestria con cui viene ricostruita in un tessuto antologico la trama che lega il 'prima' e il 'dopo'. Un'attitudine che, a ben vedere, non è solo professionale, ma anche etica. Carlo Bo, nella postfazione al primo libro di poesie di Zavoli, "Un cauto guardare", non a caso definisce la vita dell'autore "una lunga e appassionata storia di stimolatore di coscienze e di intelligenze". E si ricorda ancora il giudizio di Montanelli: "principe del giornalismo televisivo". C'è da chiedersi se questo giornalismo, che ha interpellato la realtà e l'animo di almeno due generazioni, non sia un patrimonio anche per altri uomini, di altri anni, poiché permette di capire da dove viene, ma anche dove porta, il tempo d'oggi: capace di grandi, persino grandiose conquiste, e nondimeno immerso, dopo mezzo secolo, in nuovi scenari che esigono memoria e riflessione, lucidità e speranze.