Il rapporto padre-figli in letteratura comincia con racconto epico/tragico e approda nel Novecento filtrato dalla psicanalisi, in un percorso lungo e bellissimo che ha dato anche veri e propri capolavori, soprattutto nel secolo scorso. Argomento dominante ma delicato, dai mille risvolti e anfratti, il rapporto padre-figli è stato sempre al centro dell’attenzione narrativa; il romanzo di Romana Petri si iscrive in questa secolare tradizione, declinando il nucleo della paternità nel rapporto ambiguo, conflittuale ed esasperato tra fratelli di madri diverse, figli dello stesso padre ma cresciuti distanti l’uno dall’altro, uniti e respinti non per scelta propria. E cosa non si fa nel nome del padre? Di un padre, oltretutto, protagonista assoluto, la cui sola ingombrante presenza rende inevitabilmente comprimarie tutte le altre persone che gli stanno accanto. Emilio e Germano vanno a sbattere violentemente contro lo spesso muro dei rimorsi, delle passioni soffocate, della delusione e ne escono a pezzi, frantumati e incapaci di rimettersi in piedi, uno di fronte all’altro. Romana Petri orchestra con sobria eleganza questo tiro incrociato di emozioni e sentimenti contrapposti, dove le donne, le due madri, giocano un ruolo decisivo nel ricostruire la figura di quell’uomo tanto amato e tanto fragile, passionale e distante al tempo stesso. Un confronto - inevitabile e banale - che porta i due figli a voler essere comunque radicalmente diversi dal padre: Emilio, rigoroso, padre esemplare e marito fedele, Germano, sregolato e senza legami stabili, tenendosi sempre lontano da quell’idea di famiglia che per lui richiama solo dolore e rimpianto. C’è in questo romanzo un filo sottile di rancore che si avviluppa in una matassa ingarbugliata di sofferenza e infelicità; districarla, per Emilio e Giovanni, è il senso stesso dell’esistenza, o meglio: il difficile tentativo di esistere, nel nome del padre. Antonio Strepparola