La poesia di Whitman fu nell'insieme uno dei tentativi più decisi e coerenti di conseguire l'arduo livello del pessimo e il meno arduo del risibile: che Whitman non ci sia riuscito è uno degli ilari misteri della letteratura; e così che egli abbia dovuto accontentarsi di essere un grande poeta. L'anima di Whitman è per eccellenza un luogo invisibile, ignaro di idee, senza nome; qualcosa cui ci si può rivolgere solo grazie ad incantesimi. In primo luogo, l'invisibilità, l'anonimato polimorfo: "Le agonie sono uno dei miei travestimenti". Questo verso, di istantanea meraviglia, spalanca un teatro di sontuoso, recitato orrore, una pronuncia regale, tirannica fastosa... In quanto spettro, immagine costantemente intesa alla propria consumazione, al perfezionamento dell'assenzsa, pura pronuncia senza bocca, Whitman è straordinario poeta. Egli sapeva perfettamente che il suo problema, l'unico problema, l'unico innamoramento riguardava le parole. Come maestro verbale sa modulare versi di suprema perizia: "Sussurri di morte celeste odo sommessi, /Labiali dicerie della notte, sibilanti corali...". L'astrazione verbale gli consente degli scatti di oratoria totalmente incolore, non visibile, non tangibile, una straordinaria metamorfosi di idee in perfetta verbalità, come in quello splendido "Continuities", che ha la fantasmatica articolazione di uno Yeats: "Niente è mai veramente perduto, o può essere perduto, / Nessuna nascita, forma, identità, - nessun oggetto del mondo. /Nessuna vita, nessuna forza, nessuna cosa visibile / L'apparenza non deve ostacolare, né l'ambito mutato confonderti il cervello". (Giorgio Manganelli)