In un testo a metà strada fra saggio e confessione, Vincent Delecroix si china sulla figura del semidio che l'accompagna sin dalla più tenera infanzia. E chi è Achille, se non l'incarnazione più radicale possibile di "ciò che è perduto", come recita il titolo di un altro dei suoi libri? Il poeta ce l'ha detto e ridetto: Achille ha sempre saputo di essere condannato. Ha fatto la sua scelta in anticipo, ben sapendo che non esistono rimedi o ritorni possibili. La speranza gli è preclusa, e la sua sorte così com'è forgiata nell'Iliade non è che una lunga linea dritta, una fuga da cui sa che non potrà ritornare. Achille marcia da tempo immemorabile verso l'abisso, in una corsa bruciante, violenta, cruenta, che Delecroix sviluppa con eloquenza pari all'intelligenza, unendo l'emozione e l'intensità del ricordo infantile al distacco elegante ed erudito dell'uomo fatto.