Fedele a se stesso e allo spirito che aveva animato un suo libro importante come Il comune salario, Fabrizio Bernini si apre ulteriormente con poesie che sono in effetti veri microracconti in prosa, dove la normale, quieta umiltà umana, autentica e perduta, è nell'anonima identità dell'io narrante, Celeste. Ma il suo realismo ha spesso una connotazione di forte evidenza lirica, che gli dà respiro e ne nobilita il passo, come quando il personaggio viene a trovarsi, a definirsi, in «un angolo infinito di pace e appartenenza». Ed è questo un personaggio che nelle sue parole semplici sa aprirsi al mondo e agli altri, fossero anche i suoi pochi amici. Una condizione, la sua, tanto naturale e in fondo primitiva da non escludere la crudeltà, che nei campi regolava la vita come il ritmo indifferente delle stagioni. Ma pian piano Celeste si sente affievolire nei gesti di questa sua povera umanità antica e sente che la «mano perde la sua forza e si abbandona in un dolcissimo tremore di fanciullo». C'è una saggezza insolita in queste pagine, al tempo stesso ispide e affabilissime.