Amico di Borges e di Bioy Casares, J. Rodolfo Wilcock approdò a Roma negli Anni Cinquanta, quando già era autore di una ragguardevole opera in spagnolo. In Italia, riuscì a trasfondersi in un'altra lingua, l'italiano, con una operazione che solo a pochissimi, come a Nabokov per l'inglese, è riuscita. E da allora cominciò a pubblicare racconti, romanzi, versi, saggi che costituiscono un'opera in quegli anni isolata e provocatoria, dove oggi ritroviamo alcuni dei libri di allora che meglio reggono al tempo e rimangono inconfondibili per l'estro. "Lo stereoscopio dei solitari", che è del 1972, ne è un perfetto esempio. Wilcock stesso lo presenta «come un romanzo con settanta personaggi principali che non si incontrano mai». Tra questi: un centauro affamato che dipinge nature morte oniriche; uno che scivola continuamente nella quarta dimensione; Medusa e i suoi amanti diventati statue; una gallina consulente editoriale; un fabbricante di numi; due amanti che si divorano a vicenda; un oracolo che gira per la città in camioncino; una società di scrittori in un armadio, ecc., ecc. Tanto basta per capire che in questo libro riconosceremo, come nelle immagini sul fondo di uno stereoscopio, tutto l'universo di questo scrittore per il quale il «fantastico» era come l'aria che respirava.