L'«ostinato rigore», di ascendenza leonardesca, che Valéry cercava nell'esecuzione di un'opera, si stempera in questi scritti in un movimento ondoso, aereo, fluttuante. Come un giocatore di domino, il poeta dispone le sue tessere secondo corrispondenze solo parziali, allontanandosi dal proprio oggetto quanto più sembra avvicinarvisi. Non gli interessa una critica intesa in senso illuminista o storicistico, dichiara anzi di non esercitare nessuna forma di critica o di estetica. Propone piuttosto una serie di variazioni musicali, di spontanei rifacimenti, di libere associazioni, di omaggi agli artisti e alle arti, riaffermando di fronte agli argomenti una volontà di divagazione. L'arte non si spiega, si rivela appunto per speculum, in trasparenza. Queste prose divengono allora degli scritti «sull'arte», dove il complemento non è di argomento, ma di luogo. Le parole si dispongono in prossimità dell'arte, alla sua presenza. Affrontano problemi laterali, psicologici o percettivi; accettano digressioni metafisiche, deviazioni scientifiche; raccolgono la citazione e l'aneddoto, si colorano di commozione o di ironia. Ma di proposito tacciono l'essenziale. Come sapeva Degas, «le muse non discutono mai tra loro. Lavorano tutto il giorno, ben separate. Scesa la sera, adempiuto il compito, si ritrovano e danzano: non parlano». E l'estetica di Valéry ci appare anch'essa per molti aspetti come una danza di muse: silenzioso, notturno gioco d'armonie.