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L'isola dei battiti del cuore di Laura Imai Messina

L'isola dei battiti del cuore

Laura Imai Messina, l'autirce di Quel che affidiamo al vento, torna con un nuovo libro: L'isola dei battiti del cuore che ti terrà incollato alle pagine.

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Vi proponiamo un'intervista con all'autrice per conoscere meglio il suo nuovo romanzo.

D: L'sola dei battiti del cuore esiste veramente: è Teshima, un'isoletta nel sud-
ovest del Giappone. Come è arrivata a questo luogo magico eppure reale?
Pensa che abbia un legame con l'altro luogo che ha descritto con grande
intensità nel suo romanzo Quel che affidiamo al vento?

R: Avevo studiato lungamente il lavoro di Christian Boltanski durante gli anni del dottorato di ricerca in Giappone. Mi ero concentrata sui temi principali del suo lavoro che individuai nella memoria, nella collezione, nella sparizione, e che coincidevano fatalmente con tre delle mie più grandi ossessioni. Non
ricordo il momento esatto in cui il desiderio si è tramutato in intenzione ma so che nell’arco di pochissimi giorni avevo un biglietto d’aereo e una meta. Giungere a Teshima in nave, poi in autobus, infine a piedi, avvertire l’aria pulsare mentre mi avvicinavo all’Archivio dei Battiti del Cuore, ascoltare il battito di
sconosciuti – alcuni ancora vivi, altri forse già morti - mi è parso così vicino al viaggio che avevo fatto anni prima verso il Telefono del Vento di Bell Gardia. Ecco, mi sono detta, ecco un altro di quei portali invisibili che connettono il mondo di qua al mondo di là.

D: I suoi protagonisti, Shuichi e Kenta, sono un uomo di 40 anni e un bambino di
7. Due anime solitarie che insieme trovano un modo per farsi compagnia e per salvarsi, anche. Quindi i bambini, contrariamente a quando molti adulti pensano, hanno il potere di salvarli?

R: Gli adulti non possono consolare i bambini, perché i loro mondi sono troppo distanti. I bambini si accontentano dell’amore, sanno che è tutto ciò che gli adulti gli possono dare. I bambini non possono consolare gli adulti, perché gli adulti non accordano ai bambini quel potere. Gli adulti si consolano pensando di avere almeno la capacità di consolare i bambini, ma è un’illusione”. L’ho scritto in uno degli intermezzi del libro, perché è una delle cose su cui rifletto più spesso. Credo ci sia tanta difficoltà in questo scambio impari, sproporzionato, tra adulti e bambini, ma anche moltissimo amore. Si tenta con ogni mezzo di capirsi, ma non ci si riesce. I mezzi che hanno bambini e adulti sono troppo diversi. Eppure, è proprio nell’intenzione di capirsi, di farsi del bene, che alla fine si accetta di camminarsi a fianco, di prendersi per mano, benché in fondo si continui a non capirsi veramente. È l’amore che serve, l’unica cosa capace di superare le differenze.

D: Lei parla molto di immaginazione nel suo romanzo, non solo come creatività
ma anche come strumento di felicità, come se immaginandola potessimo
renderla vera e iniziare a viverla. Come è arrivata a questa convinzione?

R: Il processo che ha portato alla maturazione di questo concetto è giunto tramite piccole spinte plurali partite chissà quando, forse quando ho capito quanto importante fosse la vita interiore oltre alla vita esteriore di una persona; un’idea che ha poi fatto un salto in avanti quando ho incontrato il guardiano del Telefono del
Vento, Sasaki-san, il quale mi ha spiegato come senza immaginazione neppure quel luogo magico potesse funzionare (ai bambini, mi disse, soprattutto quello serviva insegnare, a immaginare!). Questa straordinaria rivelazione ha trovato in seguito una conferma nel modo in cui Boltanski considerava le bugie, ovvero cose che pensi, crei nella memoria, e che sanno migliorarti persino la vita. Hanno chiuso il cerchio, in uno dei periodi più bui della mia vita, le parole di un’amica che mi incitava a immaginarmi felice e divertita in una situazione che mi risultava allora emotivamente complicatissima: “devi essere convinta di starti divertendo, vedrai che alla fine quell’emozione avrà davvero la meglio”. Ed ecco il pensiero rivoluzionario: per essere felici, serve innanzitutto immaginare di essere felici. E funziona. La nostra mente è una macchina straordinaria.

D: La cultura giapponese è ormai scivolata nella sua penna, dopo oltre vent'anni
che vive a Tokyo. Infatti, i kanji, gli ideogrammi della scrittura giapponese, sono
presenti nel romanzo e costituiscono uno dei modi in cui Shuichi e Kenta si avvicinano. Quanto è importante trasmettere conoscenza, appassionare e appassionarsi allo studio?

R: La lingua giapponese è stato il primo vero motivo che mi ha portato in questo paese di cui non sapevo nulla. Il colpo di fulmine non l’ho avuto per il Giappone in sé ma per la sua scrittura. Nel romanzo lo studio dei kanji diviene mezzo di comunicazione amorosa tra il bambino e l’adulto; l’insegnamento degli ideogrammi tra Kenta e Shuichi, l’esplorazione delle loro possibili origini e dei loro molteplici significati, è nella costruzione del loro rapporto uno scoprire insieme, un mettersi a fianco. Ho sempre pensato che faticare per qualcosa ci rende quel qualcosa prezioso e finiamo per tenere salde nella memoria le persone che hanno compiuto quel viaggio di conoscenza con noi, che ci hanno accompagnato.

D: In questo suo romanzo, come era già accaduto in Quel che affidiamo al vento,
i personaggi devono affrontare o, meglio, hanno affrontato prove durissime. Ma
nelle sue trame spesso vi è la chiave per il superamento del dolore. Quanto ha
influito la cultura giapponese nel suo modo di intendere queste tematiche?

R: La vita è maledettamente complicata. Lo è a tutte le latitudini e non so come io stessa avrei vissuto certi dolori in Italia anziché in Giappone. Tuttavia, è indubbio come la scala della felicità in questo paese sia portata a una accettazione maggiore del limite, allo smorzare l’emozione per guardare meglio le cose anziché farsi trascinare dal fiume in piena del dolore o dell’euforia. C’è consapevolezza della transitorietà dell’esistenza, della morte come condizione intrinseca alla vita. Ciò che abbiamo, paiono dire, è sempre un dono e nulla ci è dovuto di diritto. Vivere immersa nel Giappone di questo pensiero mi ha reso più
accettabile tutto. Perché quando cade l’assoluto, il superlativo, la realtà si fa più affrontabile, e nasce anche il coraggio.

Intervista a LAURA IMAI MESSINA da Francesca Lang (editor)

Chi è Laura Imai Messina?

È nata a Roma. A ventitré anni si è trasferita a Tōkyō, dove ha conseguito un dottorato in Letteratura. Attualmente insegna presso alcu netra le più prestigiose università della capitale giapponese. È autrice di romanzi, saggi e storie per ragazzi. Nel 2020 è uscito Quel che affidiamo al vento (Piemme), caso editoriale in corso di traduzione in oltre venticinque Paesi, e il saggio Tōkyō tutto l’anno. Viaggio sentimentale nella grande metropoli (Einaudi). Con Goro Goro. La pesca della stella, il viaggio di Daruma e altre storie giapponesi (Salani) ha vinto nel 2021 il Premio Laura Orvieto per la Letteratura per ragazzi. Collabora con numerosi inserti culturali italiani, con la NHK e insegna presso la Scuola Holden. Vive tra Kamakura e Tōkyō con il marito Ryōsuke e i figli, Claudio Sōsuke ed Emilio Kōsuke. Il suo sito è www.lauraimaimessina.com 

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