Questo "Diario" del grande scrittore polacco Witold Gombrowicz, che esce finalmente in italiano in edizione completa - dopo la prima, parziale traduzione di Riccardo Landau per Feltrinelli negli anni settanta -, è un'opera complessa 'e affascinante' considerata da molti il suo capolavoro: una delle più profonde riflessioni sulla condizione dell'uomo del Novecento, volutamente spacciata per un "fatto privato". Un libro, di quasi mille pagine (divise in due volumi: 1953-1958; 1959-1969), dalle forti connotazioni filosofiche, dove si insiste su questioni come l'inautenticità, e l'incompletezza dell'uomo; la morte (la presenza del Nulla nella nostra vita); la forza interumana che "crea" le persone (il nostro essere legati allo "sguardo" degli altri). Il Male e il Dolore sono i due temi sui quali riflette ossessivamente Gombrowicz. Un'opera ambiziosa, che ricorda i "Saggi" di Montaigne, mascherata sotto l'aspetto di una grande burla, dotata di una singolare varietà di temi e sentimenti, dove Gombrowicz ha riversato tutto se stesso nell'arco di tempo di oltre quindici anni, e legata magicamente a tre luoghi: l'Argentina, Berlino, Parigi. Sullo sfondo l'amata-odiata Polonia della sua giovinezza e quella filtrata attraverso la realtà dell'emigrazione. Molte pagine sono dedicate alla musica, ma tutto il "Diario" ha in fondo un andamento musicale, una struttura che, a una lettura unitaria, rivela un sapiente dosaggio di ritmi, temi che come fiumi sotterranei rizampillano fuori a distanza di decine di pagine, e di anni, riprendendo esattamente la questione da dove era stata lasciata. E' proprio questa natura musicale che fa pensare davvero al "Diario" come a un'opera unitaria, concepita sin dall'inizio esattamente così. Questa unitarietà, nella sua frammentarietà, si coglie sorprendentemente alla fine. La Forma è quella del suo pensiero: del suo sentire, ragionare e soffrire.