Plotoni d'esecuzione. Bombe al napalm. Cavalcate delle Valchirie a bordo di elicotteri assassini. C'è un altro Vietman. Fatto di vincoli familiari, cerimonie religiose, affetti domestici, gesti minimi, e soprattutto sentimenti comuni e comuni aspirazioni: un luogo dove il tempo non conta, dove leggende e fantasmi animano la vita d'ogni giorno e anche le piccole abitudini quotidiane sono frutto di riti ancestrali. A ricordarci questa verità elementare, a vent'anni dalla fine della "sporca guerra", ecco il libro di uno scrittore americano che con evidente simpatia si è calato nella lingua e nella sensibilità di un altro popolo, identificandosi con quei vietnamiti - uomini e donne, giovani e vecchi, ricchi e poveri - che hanno scelto la via dell'esilio e sono andati a riparare proprio sulle sponde acquitrinose del Mississippi. Quindici racconti, un mosaico di voci, che mettendo a confronto le tradizioni, i miti e le superstizioni del loro paese d'origine con lo stile di vita americano, rivelano in tutta la sua drammaticità la loro condizione di espatriati con memorie troppo dolorose da custodire e un'identità troppo incerta da reinventare: "Ho avuto la mia notte sulla luna e, quando sono ridiscesa lungo l'arcobaleno, anche il mondo che ho trovato era buono. Purtroppo non c'é ritorno, ma possiamo sempre accendere una lanterna e, guardando nel cielo della notte, ricordare". Nell'immenso vuoto che separa le due culture, ciascuno cerca a suo modo di crearsi uno spazio vitale, testimoniando la fatica di essere sopravvissuto. Un'ostinata ricerca di sé, una strenua lotta contro la cancellazione, il peggior male della guerra; ma anche un impercettibile gioco prospettico che, attraverso lo sguardo spaesato degli immigrati, mette a nudo contraddizioni e assurdità della nostra anima occidentale.