"Le Donne all'assemblea", qui pubblicate col commento scrupolosissimo di Massimo Vetta e l'elegante traduzione di Dario Del Corno, furono rappresentate per la prima e l'ultima volta in un mattino tra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio del 391 a.C. Malgrado la loro verve, non ebbero molto successo. In quegli anni cambiava la polis, e cambiava anche la sua immagine deformata: la commedia. Oggi "Le Donne all'assemblea" ci colpiscono in primo luogo con la loro raffigurazione di Atene. Dove è finita la grande città, la cuna del mondo, abitata da Eschilo e Sofocle, da Socrate e Platone? Atene, la "città portatile, dove tutto quello che esiste e che serve è lì sotto mano; dove si può dire che tutti si conoscono, se non sono addirittura imparentati; e tutta l'esperienza è esemplificativa, e sta nel giro della viva sensazione". La grande storia è diventata pettegolezzo, chiacchera da paese: ecco i politicanti, il mercato dei fiori, le donne lascive, e i vecchi ateniesi che vanno in assemblea "con una fiaschetta per bere e pane secco e due cipolle, e magari tre olive". Il grande lirismo aristofanesco è scomparso. Tutto è volgare, realistico, turpe. Con una gioia infantile, Aristofane ama lo stercorario e l'osceno. Quasi tutte le sue metafore hanno una matrice erotica, come se la lingua non fosse altro che sesso: sesso che si dilata, prolifera all'infinito e invade l'universo. La storia delle donne che vanno in assemblea, mascherate da uomini, con le ascelle più irsute di un cespuglio, barbe finte, scarpe pesanti, bastoni; delle donne che conquistano la maggioranza, e impongono alla città un comunismo alimentare ed erotico, è tra le più divertenti di Aristofane. Come lo spirito sempre rinascente della parodia, innalzato sul passato, sul presente e sul futuro, Aristofane si prende gioco degli uomini, delle donne, del comunismo, e in primo luogo di sé stesso e delle idee che non ha mai posseduto. Edizione con testo a fronte.