Il limbo, quella terra di nessuno in cui, per una tacita legge non scritta e per un tempo indefinito, restano consegnati dopo la morte molti artisti, e scrittori in particolare, in attesa che venga (o no) concesso loro lo status di classico, per Giovanni Comisso sembra finito. Dopo quarant'anni di quarantena più o meno dichiarata, questo prosatore di razza, sostenuto in vita da una piccola schiera di lettori insigni, ha riconquistato il posto che gli spetta nel Novecento italiano. È l'istinto il motore e denominatore comune della sua opera, e non per nulla il suo stile ha le cadenze (spesso d'inganno) della sua vita: bizzarra, fantastica, irrequieta. A questa cifra espressiva è sempre rimasto fedele. Così appare anche in queste "Satire italiane" - edite nel 1960 e arricchite l'anno seguente di altri testi nell'edizione definitiva -, una caleidoscopica esplorazione tra i sapori e i costumi della penisola dove l'autore di volta in volta si traveste da politico, burocrate, archeologo, poliziotto, riformatore. Si vedano, ad esempio, le stupende relazioni o "nuvole" di viaggio per comprendere appieno quanto la sua prosa di ascendenza memorialistica discenda per li rami dalla tradizione degli ambasciatori veneti e ne rinnovi lingua e genio in ballate da cantore errabondo e felice.