Mattoni per l'altare del fuoco

La poesia di Alessandro Ceni non intende comunicare col mondo, ma comunicare il mondo. Questa strada, intrapresa più di vent'anni fa e perseguita con onestà, coraggio e caparbietà, produce esiti per certi versi oscuri, ma densi di implosioni lampeggianti, e, ponendo la poesia sola e quasi lontana dal suo lettore, ne fa il luogo di rappresentazione di un perenne processo metamorfico. Da sempre insofferente a ogni sperimentalismo linguistico, ammirato ma intatto dall'ermetismo storico, Ceni obbedisce al suo imperativo biologico di interrogare le molecole che compongono la natura del mondo, cercando la forza amorosa che le chiama e connette. Una ammutolita pietà minerale, il canto vegetale del fiore che ascende nel calamo, fino al paesaggio degli animali, delle persone, il luogo di un'ardua compassione. Ceni avvolge di caligine il mondo per meglio vederlo, nella sua sofferenza e nel suo mistero, e la sua poesia si rivela necessaria, con esiti spesso potenti e a volte memorabili. "So che finalmente vedevo il buio/ e in esso nulla che fosse d'umano".

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