"Mi chiamo Tubutsch, Karl Tubutsch. Dico il mio nome solamente perché non possiedo altro se non questo nome": così si presenta il protagonista di questo racconto che, quando apparve nel 1911, doveva suonare azzardato e provocatorio. E la sua carica, occorre aggiungere, è rimasta intatta. Bastano poche righe ed eccoci nel territorio di una certa "rosa assoluta" - quella di Gottfried Benn o di Carl Einstein -, costruita come una sequenza di gemmanti associazioni e dissociazioni, in un continuo oscillare fra registri che vanno dall'assurdo di livida tonalità al grottesco esilarante, al disperatamente nichilistico. A parlare non è un soggetto integro, ma lembi di un soggetto che vagabonda per le vie di Vienna. Tutto si collega attraverso brevi e imprevedibili scariche di elettricità verbale. E ovunque sentiamo l'accento dell'espressionismo più puro, dolente ma privo di patetismo. Lo stesso accento che domina nel "Suicidio di un gatto", l'altrettanto folgorante racconto che qui si accompagna a "Tubutsch".
Diario di un uomo condannto alla lucida consapevolezza della sua solitudine. Memorabili le riflessioni di Karl Tubutsch sulle mosche trovate morte nel calamaio, la guerra dei galli per il dominio di un letamaio e le divagazioni metafisiche quando incontra l'ubriaco. Toccante la storia del suo amico calzolaio e il suo tentativo fallito di ingannare la noia festeggiando l'onomastico di un oste. Pennellate in bianco e nero che fanno da contorno a divagazioni apparentemente assurde, di un pazzo, ma che nella prospettiva della vita piccola piccola del'antieroe per eccellenza, sono le meditazioni di un genio. Racconto breve in cui il protagonista fa i conti con la sua unica libertà, la più grande: scegliere se vivere o morire.
Francesco - 11/01/2005 10:09