Il "Convivio" doveva essere la grande enciclopedia filosofica, mista di versi allegorici e prose esplicative, per la nuova aristocrazia spirituale degli italiani. Dante vi lavorò tra il 1304 e il 1307, in esilio, con la mente e il cuore rivolti a Firenze, "la bellissima e famosissima figlia di Roma"; ma lasciò l'opera in tronco, dopo aver finito il quarto dei quattordici trattati previsti in origine. Il disegno dell'enciclopedia si trasformò nella visione del poema; il culto per la Filosofia ritrovò la sua posizione nell'ordine spirituale che culmina nella visione di Dio; Aristotele cedette a Virgilio la funzione di maestro e duca. Il "Convivio" restò tra le carte di Dante, e solo dopo la sua morte cominciò a circolare ed essere letto (in un testo, purtroppo, già irrimediabilmente leso, qua e là, dall'incuria e ignoranza degli scribi). Restò come insostituibile guida alla cultura dell'autore e, quindi, alla lettura della "Commedia"; restò come codice fondativo di una "temperata e virile" prosa dottrinaria nel volgare di sì. Per il lettore di oggi, è anche il documento, forte di autonomo valore, di un Dante che non può essere trascurato: lo scopritore entusiasta di quanto sia dolce e aspro il gusto della conoscenza, il gusto di una verità che chiama tutto l'uomo - il poeta, come il politico - a battersi per essa non solo "con le parole ma col coltello".