Questo libro è l'ultimo lavoro a cui si dedicò Mario Praz: una vasta scelta dai suoi scritti di viaggio (in buona parte mai prima raccolti), preceduta da un'introduzione inedita, che è un magistrale profilo della storia del Grand Tour. In queste pagine Praz osserva che "pochi viaggiatori sanno essere personali, sanno vedere con occhi che penetrano nell'essenza delle cose - e accenna a certi scrittori che hanno lasciato, nei loro diari, puri elenchi di monumenti e chiese visitate. Praz è ovviamente l'opposto: come nella sua attività di critico era attratto sempre e soltanto dalla peculiarità - e dal risuonare delle peculiarità l'una sull'altra- così nella sua veste di viaggiatore lascia vibrare la sua attenzione, di preferenza, non già dinanzi agli spettacoli obbligatori, ma dinanzi a scene laterali, ad angoli dimenticati, a piccole 'enclaves' nello spazio, verso le quali il suo passo rabdomantico è ogni volta attirato. Il suo amato Charles Lamb, "quando si recava a far visita a una qualche famosa country-house d'Inghilterra, per prima cosa chiedeva del salottino cinese". Allo stesso modo, dopo una doverosa gita alle Piramidi, Praz prende subito l'occasione per una lunga visita alla deplorevole villa di Faruk. Quanto al neoclassico, lo insegue fino in Tasmania. E mai il greve orrore delle celebrazioni guerriere gli apparirà così incombente come nel War Memorial di Canberra. Ci sono luoghi e cose che sembravano attendere da tempo il suo sguardo: in un seminterrato alla periferia di Washington, una vera città fatta di case di bambole; le "carrozzelle decrepite" di una "Baden- Baden tropicale", la Petropolis di Pedro II; i palazzi di Nancy, dai "balconcini rococò... su cui i viticci e le conchiglie dorate serpeggiano come rampicanti delle Esperidi o d'un altro paese di favoleggiata beatitudine..."