Un sogno attraversa la storia e gli idoli, le bandiere, le scritte sui muri, gli slogan urlati a squarciagola colorano il sogno e la storia e li riempiono di visioni e di impossibili scenari, sino al risveglio che scrolla e disillude.
Ciò che rende amare e seducenti queste pagine è il loro apparire per quelle che sono, memorie di una gioventù meridionale bella del suo velleitarismo, che coltiva la speranza confusa di rivoltare il mondo con più di un decennio di ritardo rispetto a quel '68 che già aveva palesato il suo incarognirsi, terroristico o craxiano che fosse. Una illusione antistorica, acritica, in fin dei conti disperata, alla vigilia del crollo del Muro di Berlino.
La politica si mostra dunque come lo spazio vitale del protagonista e la cifra ideale dell'intero romanzo. Fede e ragione, sì, ma anche divertissement, battaglia da salotto, nel quale in fin dei conti l'atteggiarsi a rivoluzionario serve anche a procurarsi sesso facile. Come madame Bovary, incapace di leggere il reale se non attraverso la griglia della letteratura, qui l'universo interpretativo del protagonista è l'ideologia, quella che ti porta ad ascoltare Radio Tirana come fosse la voce del sol dell'avvenire. Poi, il risveglio, nel finale, nel quale non solo matura la morte del comunismo, ma soprattutto delle illusioni.
La vicenda è ambientata nella provincia di Bari degli anni '80, un Sud intriso di reale, ma anche di idealtipico, ridisegnato dal protagonista attraverso una visione compiaciutamente manichea di cose e persone: ricchi e indigenti, comunisti e fascisti, fidanzati in casa o scopatori non integrati. Mai, però, buoni e cattivi, perchè l'atteggiamento di fondo è quello di chi rigetta i pregiudizi in nome di una curiosità perenne nei confronti dell' "altro", sia esso l'Hare Knshna o l'amica cattolica ammazzata da un folle.
A ben guardare, è un meridione "odiosamato", di cui bisogna liberarsi non solo andando via a cercare la Merica al nord, ma uccidendolo simbolicamente, cancellandolo dal proprio orizzonte emotivo. Salvo poi ammettere che in fondo, chi resta è un eroe, come si direbbe di un luogo che si ama disperatamente senza volerlo dire. Non è un caso che nel finire del romanzo il tracollo ad Est del migliore dei mondi possibili, la prospettiva di emigrare e la fine dell'adolescenza si colorino delle stesse cromie.
Sembra dunque un romanzo di formazione politica, ma poi si rivela tutt'altro: uno strano impasto fra il piccolo mondo antico di Fogazzaro e il romanzo adolescenziale di Brizzi ma in salsa anni '80 (radio libere, Sì Piaggio, new wave). Come anche una irresistibile miscela di vitalismo e sete di esperienze, come se Whitman facesse corto circuito con Hesse. La rievocazione politica è solo sullo sfondo, perchè poi non c'è affatto la coralità del romanzo storico, non ci sono dialoghi o ceselli psicologici su altri che non siano il protagonista/autore/narratore. Suo il punto di vista sull'universo, come in un supremo atto di narcisismo.
Un lavoro dunque profondamente lirico, quasi solipsistico, con buona pace di Walter Scott. Con momenti di comicità irresistibile, come nella descrizione delle imprese canagliesche, alcoolico-allucinogene o sessuali, quelle culminanti in "un coro celestiale di Cherubini boscevichi a salutare l'avvenuto scappellamento". Al fondo, l'aristocratico atteggiamento di un protagonista che non solo detesta gli approdi banali (gli U2 ripudiati perché divenuti troppo popolari), ma vi reagisce con l'innato gusto per il gesto scomposto e iconoclasta. Tifando sempre per Ettore anziché per Achille, beninteso. Che le illusioni muoiono, ma i deboli ci sono ovunque e c'è bisogno di qualcuno che li salvi. Michele
Anonimo - 20/02/2010 21:40