Questo libro, in dialetto siciliano con traduzione a fronte, si pone nel solco di un ineludibile ricorso alle origini, un nòstos che prende corpo sulle tracce dell'ulivo, albero e principio fondativo come pochi altri della patria mediterranea. Sul filo di una sommaria genealogia dell'Arbulu nostru e della sua persistenza nel formarsi della civiltà intorno al Mare nostrum, le poesie si compongono in un mosaico di appunti, fatti e personaggi che richiamano alcune delle tante voci secondo cui l'ulivo ci ha parlato e ancora ci parla. A questa coralità di fondo fa riscontro un nucleo di poesie dal registro lirico, dove echeggia l'intenso rapporto che lega l'uomo e l'ulivo dall'alba dei tempi e il suo esaurirsi nel mondo globalizzato. «Giuseppe Cinà, che sa 'legger di greco e di latino'», scrive nella prefazione Velio Abati, «ha scoperto che lu jardinu e ancor più la cura di l'alivu fanno letteralmente, inscindibilmente tutt'uno con la materia viva del dialetto.» Le dolcezze e le ruvidità dell'ulivo trovano infatti perfetto riscontro nel dialetto e nelle sue inesauribili scorte lessicali, semantiche ed espressioniste.
Arricugghiuti, a testa appuzzuni, mmeci, ncilippari, sdivaca, arrassuliddu, cimiddiari, cutuliari,conza e sconza,arricugghiuti,...sono parole riportate nelle poesie del libro. Parole ormai in disuso ma frequenti nella parlata quotidiana della mia infanzia e adolescenza. Il solo scriverle mi emoziona, e molto di più trovarle così accuratamente collocate nelle poesie di Cinà, come "lussureggianti espressioni" dialettali atte a descrivere le dolcezze/asperità dell'ulivo e del mondo rurale siciliano. La lettura del libro è molto stimolante perché le descrizioni del contesto fisico e umano dove il prezioso albero è presente sono pregnanti e accurate. Ci sono cose straordinarie di cui non mi ero mai accorto pur avendo vissuto da giovane in campagna. Ma non si tratta di un libro centrato sulla memoria bensì sulla sua capacità di proiettare il millenario lascito dell'ulivo al presente e al futuro. Ne è un esempio la poesia a conclusione della raccolta che ha per titolo la marca di una motosega in uso ai nostri giorni ed evoca l'infausto cambio di paradigma della potatura, da cura dell'albero a tecnologia produttiva. Aggiungo che ho trovato brillante la nota dell'autore a conclusione dell'opera, in particolare la parte che riguarda l'ortografia e il lessico nonché l'efficace tentativo di tenere in vita il dialetto nonostante le insidie della globalizzazione.
Francesco
franckquarantotto - 06/12/2022 14:18