Troppo spesso i consulenti impostano la relazione col cliente come un medico distratto gestisce la visita a un paziente: si osserva il «malato», si compila una diagnosi - non sempre puntuale - e si somministra una soluzione, spesso generica o lontana dal problema reale. Questo atteggiamento astrattamente direttivo - telling - oltre a non sortire alcun effetto positivo, infastidisce il cliente che subisce in maniera passiva la presenza del consulente, anziché interagire. Se il ruolo del consulente è quello di aiutare a migliorare le dinamiche di un'organizzazione, egli dovrà, prima di tutto, presentarsi come un helper, un paziente, umile e attento osservatore della realtà aziendale, la cui gestione richiede sì un intervento esterno ma consapevole delle caratteristiche intrinseche all'organizzazione stessa e alle difficoltà contingenti. In altri termini, dovrà saper ascoltare prima di esprimere qualsiasi giudizio o giungere a conclusioni affrettate. Spinti dall'urgenza dei problemi, al contrario, si tende a ricorrere in maniera quasi automatica al procedimento formale, dimenticando l'importanza dell'ascolto «umile» da parte del consulente; solo in questo modo egli potrà creare una relazione di fiducia con il suo interlocutore e proporre interventi mirati, condivisi e rapidi. «Un aiuto reale può essere veloce, ma presuppone un rapporto fiduciario con il cliente che l'helper deve costruire fin dal primo giorno». Ricco di utili casi esemplificativi, "L'arte della consulenza" spiega come creare con il cliente una relazione collaborativa, umana ed empatica anziché prescrittiva.