Le parole della politica, soprattutto nel nostro paese, non sono segni che indicano luoghi e persone ma simboli esigenti, fortezze da espugnare, sia per raderle al suolo che per impadronirsene. È capitato a termini come 'riformismo' e 'liberalismo' riguardati, in un passato non lontano, come sinonimi di moderatismo, l'uno, e di conservatorismo sociale, l'altro. È capitato, in parte, alla 'democrazia' sempre venerata, in teoria, ma, in pratica, tanto sospetta da dover essere accompagnata da un aggettivo, facente le veci dei commissari del popolo nelle guerre rivoluzionarie contro le potenze della reazione - la 'vera' democrazia, la democrazia 'popolare' etc.
Dopo la caduta del muro di Berlino la cultura italiana - tranne poche e, almeno per il loro nonconformismo, lodevoli eccezioni - si è riscoperta tutta 'liberale' così come negli anni '60 si definiva tutta 'socialista': "gli Italiani sono socialisti e non lo sanno", suonava il titolo di un noto saggio. Per molti nostalgici della comunità, è stata la prova del trionfo del 'pensiero unico', se non del ritrovato accordo tra tutti i membri della grande famiglia illuministica è soprattutto tra quelli che l'89 e il '93 avevano irreparabilmente diviso.
Negli ultimi tempi, il linguaggio politico della sinistra sembra riguardare la democrazia quasi come un'ancella del liberalismo, sì da definire 'democratico ma non liberale' qualsiasi leader populista capace di ottenere consenso di massa per attuare politiche vantaggiose per i soliti padroni del vapore e... per se stesso. Contro quest'uso improprio dei termini, il saggio intende ristabilire il senso storico e concettuale di 'democrazia' e 'liberalismo' sia per contribuire a un dibattito più sereno e pacato tra gli interessi e i valori in conflitto, sia per tenere distinte due modalità della politica iscritte, entrambe, nell'umano e degne, pertanto, di essere preservate dall'incuria e dall'oblio. Anche per chi abbia scelto, e certo non per inseguire la moda del momento, il campo liberale.